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L'angolo dell'Arte - Il testamento di Michelangelo

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a cura di Giulia Romano

Sono ancora con gli occhi incantati a contemplare la bellezza dei mosaici di Santa Maria Maggiore. Dovrei uscire, ma mi sovviene il ricordo che il 18 febbraio 1564 morì Michelangelo Buonarroti. E con ciò? ci si domanderà.
Allora per capire il prolungarsi della mia sosta in Basilica dobbiamo tornare a parlare di lui, del più grande artista del Rinascimento italiano. Quel giorno morì nella sua modesta casa romana che sorgeva laddove oggi si trova il monumento a Vittorio Emanuele II° (Piazza Venezia), assistito dal carissimo amico Tommaso dé Cavalieri.
La salma portata a Firenze fu inumata nella Basilica di S. Croce a Firenze, e quando ci si trova davanti al suo sepolcro monumentale sembrano aleggiare i versi meravigliosi di Ugo Foscolo:
... A egregie cose il forte animo accendono l’urne de’ forti....... e bella e santa fanno al peregrin la terra che le ricetta. Io quando il monumento vidi..... ....e l’arca di colui che nuovo Olimpo Alzò in Roma a’ Celesti; ....
michelangelo1Abbiamo già incontrato il Michelangelo pittore e scultore ma gli ultimi decenni di vita sono caratterizzati da un progressivo abbandono della pittura e scultura, esercitata solo in occasione di opere di carattere privato.
Prendono consistenza, invece, numerosi progetti architettonici e urbanistici, anche se molti di essi vennero portati a termine in periodi successivi alla sua morte.
Difficile stabilire con esattezza quale sia stata l’ultima opere del “ terribile vecchio “ : di quel Michelangelo che a ottantotto anni era ancora in pieno vigore artistitco e creativo e dava prova di una genialità più drammatica e certo non inferiore a quella della sua piena giovinezza.
Basta pensare che nei suoi ultimi anni dedicò tante cure al progetto dell’innalzamento della Cupola di S. Pietro e al completamento di Palazzo Farnese, due tra le più grandiose moli che abbelliscono la Roma monumentale, disegnò l’originalissima Porta Pia, concepì, con uno dei più maestosi progetti di tutto il Rinascimento, la trasformazione in chiesa (S. Maria degli Angeli) e convento per i Padri Certosini delle Terme di Diocleziano (imperatore della fine del III sec D.C.).
Quanti altri ultrottantenni possono vantare una simile energia creatrice?
Nemmeno il pur grande Tiziano, che lavorò fin quando a peste lo portò via (1490-1576) ma non più con la meravigliosa facilità della giovinezza; nemmeno il pur attivissimo Gian Lorenzo Bernini (1598-1680).
michelangelo2C’è un solo paragone da fare, in un altro campo dell’arte: Giuseppe Verdi (1813-1901), l’altro grandissimo (terribile e adorabile) vecchio che, a ottant’ anni compiuti, creò la sua ultima opera “ Falstaff “ e quindi, quasi a riposarsi, le stupende armonie degli ultimi “Quattro Pezzi Sacri“ (Ave Maria, Stabat Mater, Laudi alla Vergine, Te Deum).
E molti altri sarebbero i contatti fra i due più grandi e nobili vegliardi non solo dell’arte italiana, ma di tutta l’arte universale. Ma tornando a Michelangelo e al suo ultimo capolavoro e alla mia prolungata sosta in Basilica: è proprio al suo interno troviamo la mirabile “ Cappella Sforza di S. Maria Maggiore“, indicata come il suo testamento artistico e spirituale. Quest’ opera di altissimo livello fu cominciata nel1564, l’anno della sua morte.
Egli ne dette i disegni e il modello, però non ebbe tempo di curarne personalmente la costruzione, realizzata dal bravissimo Giacomo della Porta, nel1573, artista che faceva parte della cerchia michelangiolesca, che rispettò il carattere e l’indubbia volontà del creatore di rompere con la stanca tradizione e con le forme abitudinarie. Successivamente, fu completata dall’architetto Tiberio Calcagni. Stiamo parlando della seconda cappella della navata sinistra di S. Maria Maggiore ed è dedicata alla Madonna dell’Assunta, cui si riferisce la pala d’altare, un olio su legno della metà del ‘500. Ai lati sono poste le tombe del committente, il cardinale Guido Ascanio Sforza, e di suo fratello Alessandro, anch’egli cardinale. Appena entrati nella cappella portiamoci nell’abside di sinistra o in quella di destra, e giriamo lo sguardo tutt’attorno e verso l’alto.
Solo così ci potremo rendere conto dell’audace e nuova concezione dello spazio ideata dal Maestro: uno spazio ellittico. Sui due lati della cappella si incurvano le possenti absidi a nicchione; quattro gigantesche colonne, avanzando dai lati delle absidi con un movimento totalmente nuovo nella storia dell’arte, formano uno spazio scenico in maniera quasi drammatica. Su queste colonne e sulla trabeazione che esse reggono si imposta la magnifica volta a vela. Tutto è di una essenzialità senza pari, nessuna decorazione superflua.
Perchè abbiamo indicato quest’opera come il testamento del Maestro? Perchè in quest’opera così nuova, realizzata sessanta o settant’anni prima degli innovatori dell’arte barocca, sembra che egli abbia voluto dire a tutti gli artisti che lo seguiranno: “Non preoccupatevi della tradizione, delle scuole, dei canoni, di ciò che è gia stato fatto, anche dai Grandi! Create in piena libertà di spirito, seguite ciò che l’intelletto e l’amore vi dettano. Solo così le vostre creazioni resteranno vive dopo che voi sarete scomparsi, e il vostro nome vivrà in eterno!"
Non stupisce che Michelangelo, alchimista che con il lavoro delle sue mani ha trasformato la materia in capolavori, parli ed emozioni ancora dopo 500 anni! •

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Chiesa - Un anno fa la firma del documento sulla FRATELLANZA UMANA

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UN RICHIAMO E UNA RESPONSABILITÀ

cultureTrattasi di un documento sui generis: papa Francesco e il Grande Imam di Al-Azhar firmano ad Abu Dhabi, un forte invito a riscoprirsi fratelli per promuovere insieme la Giustizia e la pace, garantendo i diritti umani e la libertà religiosa.
Era il 4 febbraio 2019.
La bussola del documento è la cultura del dialogo come via, la collaborazione comune come condotta e la conoscenza reciproca come metodo e criterio.
Un appello per porre fine alle guerre e condannare le piaghe del terrorismo e della violenza, specialmente quella colorata da motivi religiosi. “La fede - si legge nella prefazione - porta il credente a vedere nell’altro un fratello da sostenere e da amare”.
È una frase che per il tranoista si fa stile di vita che impegna nei rapporti e nella testimonianza di una accoglienza che non è solo solidarietà, assistenza, formalità civica, ma piuttosto ascolto con la mente e con il cuore, condivisione, accompagnamento, promozione e dialogo.
Quello che ci deve, tra l’altro, caratterizzare, è l’essere fratelli l’uno dell’altro perché figli di un solo Padre Dio. Dunque la nostra accoglienza si fa forza nella misura in cui riusciamo a costruire anche il senso di appartenere ad una famiglia umana, essere comunione e sentire la responsabilità di costruire una fraternità universale sotto un solo Pastore, perché i nostri rapporti sono vivificati dalla presenza di Colui, il Cristo, che vive Tra Noi ed in Lui possiamo invocare Dio come Padre.
I due leader nel documento ricordano anche quanto siano essenziali la famiglia ed il rispetto della vita, la libertà religiosa ed il riconoscimento dei diritti della donna, fare delle religioni dei ponti tra i popoli e le culture “per aiutare la famiglia umana a maturare la capacità di riconciliazione, la visione di speranza e gli itinerari concreti di pace”.
Questa dichiarazione, partendo da una riflessione profonda sulla nostra realtà contemporanea, apprezzando i suoi successi e vivendo i suoi dolori, le sue sciagure e calamità, crede fermamente che tra le più importanti cause della crisi del mondo moderno vi siano una coscienza umana anestetizzata e l’allontanamento dai valori religiosi, nonché il predominio dell’individualismo e delle filosofie materialistiche che divinizzano l’uomo e mettono i valori mondani e materiali al posto dei principi supremi e trascendenti. Si verifica perciò un deterioramento dell’etica, che condiziona l’agire internazionale, e un indebolimento dei valori spirituali e del senso di responsabilità”.
Siamo dunque chiamati, ad un anno di distanza, a riesaminare il nostro agire anche come risposta alle attese dei popoli che, pur con differenti religioni e culture, tendono con tutti gli uomini di buona volontà a costruire un mondo migliore. Il lavorare insieme è stato uno degli impegni che ad un anno di distanza hanno ratificato mussulmani e cristiani. L’insieme è la chiave per il futuro. Cristiani e musulmani hanno buona volontà comune di creare questa cultura dell’incontro, ma dobbiamo anche usare i diversi mass media per il bene e non per il male. Impegnarci tutti nei diversi modi e ambienti a creare una cultura dei diritti dell’uomo: come rispettare la dignità di ogni persona umana, cosa fare per lo sviluppo integrale dell’umanità, essere fratelli per portare nel mondo un canto di gioia. •



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Attualità - Ricchezza ed Equità

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re320Una vita lunga finisce col mostrarci tutte le incongruenze e le contraddizioni che man mano si formano in questo mondo, che investono ogni campo ma ancor più quello politico, dove sovente si sostiene che la modernità è indice di progresso e chi rallenta è fuori di essa.
Nella realtà, in molti casi, non vi è altro che un ripetersi della Storia: passano le generazioni ma la storia si ripete, si potrebbe dire “sotto mentite spoglie”.
Nel nostro Paese, come in molti altri se non in tutti, si riafferma quasi ciclicamente il conflitto tra fazioni ricche e povere, dove le ricche rodono quotidianamente anche quel poco che i poveri si sono conquistati con fatica e dolore.
La realtà è che la ricchezza unisce fortemente i ricchi, mentre il povero non riesce a unirsi, a creare gruppo, una forza, perché spera di rientrare da singolo in quel cerchio magico, in quella scia che gli consenta di diventare a sua volta un ricco e non si accorge dell’illusione che persegue.
Facciamo esempi semplici e elementari: il concetto di Repubblica Democratica dovrebbe far presupporre che gli Eletti dal popolo rappresentino un’Istituzione che regoli e spartisca equamente tra il popolo la ricchezza prodotta, cosa certo non facile.
Ora guardiamo cosa è avvenuto.
Entro i confini del paese, quello che entrava e usciva aveva una tassazione, che serviva a reggere lo Stato, i servizi e gli aiuti che poi venivano riversati sul popolo. Ma la ricchezza, cioè il capitale di base, non si poteva esportare. Eppure i ricchi e i potenti con artifici esportavano capitali.
re3202Addirittura c’erano persone i cosiddetti “spalloni” che superavano i confini, portando somme di denaro più o meno cospicue per depositarle nelle banche straniere. Poi paesi più grandi, più ricchi hanno cercato di sottomettere quelli più piccoli e meno ricchi, i quali allora si sono uniti con specifici accordi, vedi Europa.
Quindi si è generata la necessità di movimentare i capitali, cosa che avrebbe dovuto fortificare i vari paesi aderenti, in modo che potessero confrontarsi alla pari con gli altri blocchi di ricchezza, in primis USA, Russia, Cina, e, in alcune fasi, India, Brasile, Emirati Arabi. Nei fatti l’Europa non è ancora stata capace di creare una vera unità, mentre il Capitale è riuscito a svincolarsi dai legami e dal controllo che gli Stati esercitavano su di esso e di conseguenza a volatilizzarsi attraverso la Globalizzazione, tant’è che il Capitale detta le leggi agli Stati.
Pensate per un attimo a cosa è avvenuto con le tasse dovute da alcune Multinazionali che hanno contrattato - questo è un eufemismo - con gli Stati sul punto, decidendo di fatto quanto e con quale aliquota avrebbero pagato di tasse.
Questo genera una distorsione del mercato perché viene a penalizzare le aziende che pagano regolarmente le tasse, in base a quantità, tempi e modalità richiesti dalle leggi e quindi in misura assai superiore alle grandi multinazionali, avendo, quindi, minori risorse da destinare alla ricerca per rendere i loro prodotti concorrenziali.
re3203La storia dunque si ripete e torna a quando il Capitale e i suoi possessori erano svincolati da ogni legge con una differenza non da poco: prima il Capitale si identificava col potente, il sovrano di turno; oggi invece è il Capitale che governa il Sovrano e i Potenti.
Pensate alla massa anonima che si sacrifica per risparmiare pochi euro e poi li investe, sperando in un poco di interesse per non perdere il potere d’acquisto. Tale risparmio finirà in un Fondo che verrà gestito e investito in ciò che gli darà un interesse più alto. Così facendo, però, si determinerà a cascata un aumento dei costi e quindi dei prezzi, che impoverirà ancora di più il povero e arricchirà sempre più il ricco.
E questo proprio perché non c’è una forza valida e forte di controllo, di equilibrio dell’utile, che possa determinare fino a che punto un singolo o uno Stato possa essere ricco a fronte dei tanti poveri esistenti.
Questa forse non è la storia che ripete il dominio del ricco sul povero?
E il rimedio non è forse in un riappropriarsi da parte del popolo e dei suoi rappresentanti del potere di determinare la ricchezza in mano ai singoli, attraverso la fiscalità? •


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Gocce di Spiritualità - «Padre nostro che sei nei cieli»

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di don Marco Pozza

Volta_Div_ProvvNon tira le orecchie al Padre nostro, Papa Francesco.
Neanche a Gesù che l’ha scritto. Rimprovera la traduzione: «non è buona» dice.
Il verbo “indurre a” è da procedura penale: più che alla premura di un padre, addita all’istigazione di un avversario. È in gioco, dunque, l’immagine stessa di Dio: un Dio felice per la nostra gioia o un Dio geloso della nostra gioia e, dunque, istigatore?
Francesco non dubita: istigare è la specialità di Satana. È meglio: “Non abbandonarci alla tentazione».
È già scritto nell’ultima versione scelta dalla CEI: non è Francesco a cambiare, dunque. È Satana che, farabutto, si diverte a partorire confusione! “Tentare” è un verbo che richiama il tatto: si esplora anche con le mani.
A Dio chiediamo di non sbagliare strada, di non sbagliare Padre, in questo viaggio di scoperta. «Non abbandonarci» è richiesta di aiuto, non indurci è ammissione di paura.
A governare con la paura sono capaci tutti: l’allegrezza di Cristo è d’insegnare a governare con la libertà, condizione-prima della gioia. È di questo che parla il Papa.
Da qualche giorno in Francia si prega ufficialmente così: «E non lasciarci entrare in tentazione». Francesco, dunque, ha bucato lo schermo senza dire nulla di nuovo: è che certi giorni – come scriveva Léon Bloy - l’uomo è così stanco di sentir parlare gli uomini, che basta parlargli di Dio per vederlo piangere.
O, tutt’al più, interrogarsi sul suo vero volto di Padre. Che mai tenta.

“A casa di mio padre non si respira più”
Dopo il saluto beneaugurante dell’Arcangelo a Maria - «Concepirai un figlio, lo darai alla luce, lo chiamerai Gesù»(Lc 1,31) - Satana perdette la testa. Gli scoppiò addosso il complesso dell’annuncio: prese di mira l’uomo e lo fece il destinatario di false annunciazioni.
La dichiarazione di falso è sua professione. Due su tutte: «Dio sa che quando voi ne mangiaste, si aprirebbero i vostri occhi e diventereste come Dio» (Gen 3,5).
Sparigliò le carte, diffondendo materia che più falsa non ce n’era: nessuna differenza tra Creatore e creatura, tutti uguali. Così Dio divenne il primo rivale dell’uomo nella rincorsa alla felicità.
Accerchiato il Padre, l’annuncio secondo: «Caino alzò la mano contro il fratello Abele e lo uccise» (4,8). Lucifero è un bandito che annuncia morti necessarie: “Il Padre è ingombrante: via! Il fratello è immagine seconda del padre: via!
Figli unici, pure orfani, magari di padri vedovi: Satana è lurido. Furono, rimarranno, annunciazioni di abbandoni. Di porte sbattute nel pieno dell’esistenza. Padre-padrone: “A casa di mio padre non si respira! Ci vediamo a Natale, Pasqua, i morti. Non m’importa nemmeno sapere se è ancora vivo”.
Il peggiore: “Mio padre mi ha abbandonato: ero bambino”. In materia d’orfanezza, Satana ha un’iradiddìo di giustificazioni: perfetto rubacuori, il suo ultimo cruccio è d’intaccare maternità e paternità. La destinazione delle sue annunciazioni è di materia così bassa d’apparire quasi impercettibile: “Sei figlio di N.N.”. È formula di solitudine pazza: “Nomen nescio” (non conosco il nome).
Dove nome è punto di partenza e porto d’attracco: senza-nome è carta d’imbarco degli abbandonati.Prima di Cristo, arrivò Omero: Satana mica s’accorse. Prima di Betlemme, ci sta l’isola di Itaca.
Telemaco – se Lucifero non s’accorse non importa, pare più ironica la fantasia divina - iniziò a tracciare il viaggio di ritorno al padre: «Se gli uomini potessero scegliere ogni cosa da soli, per prima cosa vorrei il ritorno del padre». Una dichiarazione di mancanza che spalanca scorci su una presenza desiderata. Partito da Itaca, per sé scelse il rischio della ricerca alla sicurezza della compassione. Per questo pregò Nestore: "Non dirmi parole per rispetto o per pietà, ma raccontami bene quanto ti capitò di vedere".
Per vent’anni - il tempo che Ulisse impiegò per rincasare vincitore - nell’isola di Itaca Telemaco visse nel nome del padre: nell’attesa del suo ritorno, fu il figlio a tenere accesa la dignità paterna. Fu l’annunciazione della letteratura a Satana: “Ritornerà la nostalgia del padre, quello che tu hai osato infangare”.
Ad Itaca, isola di partenza di tutte le storie a venire, guardando il mare fiorì la nostalgia del padre. In terra galilea, approdo/appoggio della Storia, guardando il loro Maestro pregare, i Dodici trassero indizi di suo Padre: era il Padre anche di tutti quelli che erano a venire.
Era un nome collettivo: “Padre nostro”. Nome largo.

Il sogno d’essere figli unici
Si ritirò per concentrarsi, si ritrasse per esserci: si appartò per stare al centro.
Come chi, per fare un salto, prende la rincorsa. Quand’era immerso nel silenzio, caricava la molla per tentare di alzarsi: «Gesù si trovava in un luogo a pregare». Lo intravidero: non osarono disturbarlo. Dopo «quando ebbe finito» di pregare, saltarono appresso a quel cuore orante: «Insegnaci a pregare» (Lc 1,11).
Possiamo solo tentare d’immaginare di quale portata fosse lo spettacolo che i discepoli godettero in diretta: l’Ecce homo in ginocchio, la posizione perfetta per chi ama stare con la schiena dritta, in piedi.
Fu una goduria di massima potenza se la loro ambizione fu quella di imitarlo: “Dicci come si fa!” Forse era proprio questo il motivo per il quale pregava: che gli chiedessero d’insegnarglielo. Lo insegna, dunque, dopo averne fatto divampare il desiderio: la terra è pronta, il cuore è eccitato, i sensi sono all’erta. Sono in stato d’assedio: pronti a maturare.
Nasce il Pater: rinasce il gusto del padre.
Mica lo impose: la sua risposta – che fu la preghiera - fu la conseguenza di una domanda umana, sbocciata dopo aver visto che faccia aveva il pudore, l’intimità, la discrezione di quell’Uomo che stava in ginocchio, in disparte.
Lo chiedettero loro, ma rispose Lui. La differenza la fece la risposta: disse «Padre» e vi aggiunse «nostro».
Dire padre è firmare il più bel complimento di moto-da-luogo: prima che io fossi, già ero nel pensiero di qualcuno. Si arriva dal proprio padre-madre come si arriva da un paese: sono di mio padre come sono di casa mia.
E per evitare che nessuno fosse ingordo, vi aggiunse l’aggettivo più largo della grammatica: nostro. Fu materiale di casa: il padre e la proprietà, «una preghiera senza letteratura, senza teologia, senza la baldanza e senza servilità. La più bella di tutte» (G. Papini). Portò Dio così vicino – il padre è il mio prossimo più prossimo – d’apparire quasi irriverente: diede del tu all’uomo più inavvicinabile che esistesse. Il suo fu uno spionaggio in piena regola: osò aprire le porte di casa per permettere, a chi lo voleva, di buttar l’occhio nella bottega del desiderio.
Quello che Lucifero fiutò fu che quella preghiera era roba seria, perchè il padre è l’esatto contrario della solitudine, che è il suo segreto di vittoria: isolare per poi annientare. Fu ulteriore dichiarazione di guerra: nel Pater Dio si offre ancor più all’uomo per insegnargli la grammatica del desiderio. Gesù, pregando, appende sul suo cuore il cartello “Affittasi”: quel cuore in preghiera è casa-inaffitto per chi vuol vedere il volto del Dio suo. Unica condizione è l’affitto condiviso: nulla è più bello per un padre del vedere i figli guardarlo tutti insieme.
Assieme è preposizione di compagnia, anche condizione di visibilità.

«Che stai». L’annunciazione tipica degli amanti: Dio ci sta
Stare” è un verbo di posizione: stare al proprio posto è posizione di rispetto e auspicio. È confidenza di comodità: “Sto da Dio. Questo vestito ti sta da Dio”.
Posizione e comodità, anche supposizione di fedeltà: “stare” è, prima di tutto, il verbo della fedeltà. Dichiara somiglianza all’amore. “Dio ci sta”, nel senso più amoroso del termine: “Ci ho provato con Lui: ci sta”. Israele è evidenza prima di un Dio che ci sta: «Ho udito il suo grido a causa dei suoi sorveglianti (...) Sono sceso per liberarlo» (Es 3,7-8).
Israele Gli ha fatto la sua proposta, a modo suo, e Dio ha risposto: a modo suo. “Ci sono” è il suo nome. Pare quasi assurdo che il Dio inavvicinabile, quell’inarrivabile misterioso, la lontananza più curiosa della storia, sia lusingata dall’invito: eppur si muove.
A Betlemme mostrò di starci. E “starci” è verbo di pazienza, di filatura, rammendo: «Molte volte gli uomini hanno infranto la tua alleanza. E tu, invece di abbandonarli, hai stretto con loro un vincolo così saldo che nulla potrà mai strappare».
È certezza della liturgia. Il Padre ritesse la tela: Israele è un figlio che disonora, sperpera l’eredità, scorda il padre. Dio che fa? Continua a starci.
Si sporge fin sull’impossibile, fino quasi a lasciare che altri dicano: non è Dio. Il salmista sfiora la bestemmia: «Se dovessi camminare in una valle oscura, non temerei alcun male, perchè tu sei con me» (Sal 23,4).
Dio a passeggio nell’oscura notte del Maligno.
Ci starà fin dentro le vallate infernali, pur di non fare sentire sola la sua creatura scassinata.
Ci sta fin dentro le patrie galere, nelle anime scorticate di rabbia, nei sottoscala polverosi, dentro i barconi che affondano. Sotto i tappeti, sopra gli armadi, nelle zone d’ombra dellastoria.
Una vicinanza così assurda nemmeno Israele riuscì mai a capirla.
Neanche Giuda e Paolo, Agostino, Francesco, Teresa. Neanche io. Nella lettera che scrive al padre, lo scrittore praghese Kafka è durissimo: «Mi è sempre risultata incomprensibile la tua assoluta mancanza di sensibilità per il dolore e la vergogna che riuscivi ad infliggermi con le tue parole, i tuoi giudizi. Era come se non avessi minima idea del tuo potere».
Il Padre di Gesù è una possibile risposta al padre di Kafka: un conto è indicare la strada, un conto è percorrerla assieme. Scendere fin dentro gli abissi dell’inferno pur di non far svergognare la creatura.
Dio-equilibrista: ci sta anche a costo di far finta di non vedere. “Stare”, dunque, è conseguenza dell’esserci: non può stare chi non esiste. È condizione di innamoramento folle: non può starci chi non è affetto dal desiderio di te. Stare, starci, esserci: «Che sei (nei cieli)» Siccome sei, allora sei laddove sono io. Sulla strada che porta verso l’inferno: per farmi annusare fino all’ultimo che tu ci stai provando ancora con me.
Negli spazi del Paradiso: per mostrarmi che per Te starci è sempre stato verbo di promesse. Mantenute: «Prendi parte alla gioia del tuo padrone» (Mt 25,21).

I cieli. La lontananza è l’intimità più vicina
Sta lassù: rannicchiato, menefreghista, a guardare il mondo dall’elicottero.
È l’affondo di Satana: non t’accorgi che a Dio, alla fin fine, gli interessi poco? Mica capisce le logiche d’amore il Maligno. «Che sei nei cieli» non significa “che non sei in terra”.
Potrebbe mostrarsi l’esatto opposto: scelgo di stare lassù per fare in modo che quaggiù nessuno mi sequestri per sè. Nostro è divieto di proprietà: chi crea non può essere posseduto da chi è creato. Rispetto al cielo viviamo un gradino sotto. Il gradino è punto di differenza, linea di divergenza, tra chi crea e il creato.
Abitare la terra è analisi grammaticale: dividere per capire, smontare per capire. Essere residenti in cielo è analisi logica: grandi manovre, visione d’insieme, garanzia che il finito è benedettamente dentro l’infinito.
È esigenza del campo visivo: ci sono cose – robe d’arte, d’affetti, colpi secchi – che, per capirli, occorre distanziarli dall’occhio. Anche dal cuore: “Allontana un po’ l’immagine. Sei troppo vicino: fai cinque passi indietro. Proviamo a stare un po’ distanti: vediamo se ci manchiamo”. La terra è spaziocondiviso tra uomo e Dio: il cielo è la proprietà privata di Dio. Proposta, però, all’uomo.
A Betlemme, complemento di terra, da foresto Dio diventa amico: in Paradiso, complemento di cielo, l’uomo da straniero diventa cittadino. Il Cielo è la sorgente, la terra è il fiume: nessuna sorgente è più a valle del fiume. Non per questo la sorgente si disinteressa del fiume: è lei a tenere aperti i rubinetti. Alla sorgente, poi, l’acqua è sempre più fresca, non inquinata: il Cielo è spazio in cui Dio non è infangato, lo sguardo è puro, l’aria ossigenata.
Da lassù verso quaggiù è la traiettoria della salvezza: da quaggiù verso lassù – a mo’ di conquista – è l’orgoglio di Babele. Vado-e-torno è cartello strano: dice chiusura ma anche prossima apertura. È lontano ma sta in arrivo. “Vado in cielo e torno in terra” è la promessa di Cristo: «Io vado a prepararvi un posto; quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, ritornerò e vi prenderò con me, perchè siate anche voi dove sono io» (Gv 14,3).
Gli amici non capirono che Lui andava per restare, che il Cielo era condizione di sopravvivenza della Terra. Quando lo capiranno – e lo capiranno senza diritto di replica alcuna – scopriranno che Dio sta nei cieli perchè ci-sta con noi: è nota particolare dell’amore l’andarsene per far splendere, lo stare lontano per tentare di allenare l’intimità, abitare il Cielo per far brillare la terra.
Il cielo è concretezza tremenda, assicurazione di sguardo: chi più in alto sta, più lontano vede. Il Creatore sta in alto: è mestiere di sentinella.
La creatura sta in basso: lavorare il basso, in basso, ricercando l’alto è il mestiere condiviso nei sogni di Dio. Gesù di Nazareth è postino tra il cielo e la terra: porta in terra, all’uomo, il riverbero di Dio.
A Dio riporta la risposta dell’uomo. Avanti-e-indietro: perchè il sentiero più è battuto più diventa strada. Più è nostro più diventa largo: incrocio nel quale Dio mostra di starci con l’uomo. «Padre nostro, che sei nei cieli»: è vero che sta lassù, nei cieli.
È anche vero che ci sono segnali quaggiù – destini riaccesi, amori risanati – che destano sospetto circa chi sia il Mittente.
Il cielo in terra, Dio nell’uomo: il tutto nel frammento.
Gli diedero del matto. •


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