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di Anna Maria Canopi

Romano_GuardiniCinquantanni fa - il 1° ottobre 1968 - concludeva a Monaco di Baviera la sua lunga e feconda giornata terrena il servo di Dio Romano Guardini. Nell’imminenza del Sinodo dei vescovi dedicato ai giovani, ritengo opportuno presentare questa figura che sul mondo giovanile ebbe un grande e benefico influsso negli anni tragici del nazismo, della Seconda guerra mondiale e del dopoguerra, con tutti i suoi fermenti innovativi in campo sociale ed ecclesiale.
Teologo rinomato, il suo modo di insegnare, per nulla cattedratico, faceva molta presa sui giovani, che gremivano le aule dove teneva le lezioni per mettersi in ascolto non di un professore, ma di un maestro di vita, anzi, oserei dire di un padre della Chiesa del XX secolo. Tale fu per me fin dagli anni della mia formazione monastica, grazie in particolare ai suoi scritti sulla Liturgia. Traccio dunque questo rapido profilo con un senso di profonda ammirazione e gratitudine e con la speranza di suscitare nei giovani di oggi il desiderio di conoscerlo, di stringere amicizia con lui e di attingere ai suoi scritti, tesori di sapienza spirituale. 
Nato a Verona nel 1885, Guardini divenne tedesco per “adozione”: era ancora in fasce, infatti, quando, per motivi di lavoro, la famiglia si trasferì a Magonza.
In Germania fu educato e frequentò le scuole, da quelle primarie fino all’università. Da giovane, lentamente si allontanò dalla fede, ma per farvi poi ritorno in modo netto e totale. Aveva circa trent’anni e attraversava un momento di crisi, quando, discutendo con un amico, intuì che per uscire da quella penosa situazione «occorreva rifarsi alle parole: “Chi vuol conservare la sua anima la perderà, e chi invece la dona la salverà” (cfr. Mt 10,39).
Racconta egli stesso: «Mi si era fatto a grado a grado chiaro che c’è una legge secondo cui l’uomo, quando “conserva la sua anima”, cioè rimane in se stesso, perde la sua vera realtà. Se vuole giungere alla verità e, nella verità, al suo vero io, allora deve donarsi». 
Ma donarsi a chi? A Guardini non bastò pensare di donare la propria vita a Dio in astratto, perché comprendeva bene il rischio: «Quando l’uomo vuol avere a che fare soltanto con Dio, dice “Dio” e intende se stesso». Ed ecco il momento della decisione: «Sentii dentro di me come se portassi nelle mie mani tutto, veramente tutto, il mio essere come su una bilancia in perfetto equilibrio. Posso farla pendere a destra o a sinistra. Posso dare la mia anima o tenerla. Io la feci pendere verso il dono». 
Fu un istante del tutto silenzioso, cui seguì una felicità tranquilla: la gioia di essere di Dio nella Chiesa come sacerdote, come uomo di Dio che celebra, vive e comunica i misteri del Cristo, il Signore della vita e della storia, secondo il titolo della sua opera forse più importante, certamente più nota. Già nel 1922 - quasi anticipando e preparando il Concilio Vaticano II — parlava di un necessario «risveglio della Chiesa nelle anime». E intendeva quel processo di “uscita” dall’individualismo verso la comunione, verso il mistero della comune appartenenza a Cristo, finché l’io si dilati nell’amore e non ci sia che un grande noi, «raggiunto in modo vivo: io e le persone a destra e a sinistra, il vecchio qui davanti a me, là la donna con l’ansia dipinta sul volto, in un grande, ammirevole amore pronto a partecipare alla vita altrui, a farla propria». •

Questo ed altri articoli sul numero di Ottobre 2018 (presente in archivio)
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